Diario, guida sentimentale di Reggio e provincia, suggestioni

Spostare le montagne

In autunno, com’è normale, il lavoro cala un po’ e allora io ne approfitto per visitare quelle parti di Calabria che ancora non conosco, per riprendere il mio percorso di esplorazione di una terra che non smette mai di sorprendere e di stupire, che sembra sempre più vasta – direi sconfinata – quanto più se ne sonda la profondità.

Non lo si sottolinea mai abbastanza: la Calabria è conosciuta per il mare (in effetti, ne abbiamo 2) ma la nostra vera ricchezza sono le aree interne. Forse iniziamo un po’ a capirlo, ma non ne siamo ancora del tutto consapevoli. Noi calabresi rivolgiamo alle nostre aree interne uno sguardo ambiguo, ambivalente: da una parte, non possiamo dimenticare secoli di miseria, povertà, privazioni e isolamento delle nostre genti, una situazione così marcata e potente da cancellare, nelle nostre memorie, lo splendore e i fasti delle età più antiche; d’altra parte, è però innegabile che questi paesaggi così arcaici e suggestivi esercitano su di noi un fascino magnetico, toccano le corde più profonde del nostro essere e ci fanno sentire a casa.

Ambivalente è anche il nostro comportamento: alcune e alcuni di noi dedicano la propria vita al recupero sociale, culturale ed economico delle nostre aree interne e si riuniscono in associazioni e movimenti per progettare un futuro, garantire una salvezza. Allo stesso tempo, altre persone… beh, se dipendesse da loro, il futuro della mia terra sarebbe una cremazione, un mucchietto di cenere che lo scirocco e la boria spazzerebbero via come niente. Questa estate in Aspromonte oltre 7mila ettari di bosco sono andati in fumo. Una tragedia che ci ha colpito dritto al cuore. E’ terribile, il fuoco. Divora tutto e non rimane niente. Occorre allora impegnarsi il doppio, il triplo, mille volte tanto, per rinascere dalle ceneri. A volte succede.

Nel 2002 un incendio colpì l’area boschiva che circonda il comune di Nardodipace, situato al confine tra la zona della Locride (RC) e quella delle Serre (CZ). E se il fuoco distrugge sempre, questa volta ha rivelato. Ha permesso che tornassero alla luce delle opere megalitiche risalenti al V millennio a. C. “La Stonehenge calabrese”, l’abbiamo chiamata. Una serie di rocce enormi accatastate le une sulle altre e tenute insieme da un equilibrio basato unicamente sul loro peso. Né cemento, né malta: solo forza di gravità, la stessa forza che ci è voluta per creare queste formazioni.

Una volta gli uomini e le donne spostavano letteralmente le montagne. E ancora oggi, in senso figurato, continuano a farlo con la stessa forza, cercando di tenere insieme senza cemento né malta un territorio che rischia la crisi perenne, lo sfilacciamento, l’abbandono, la disgregazione. Il fuoco e la cenere.

Non è detto che sempre riusciremo a rinascere. Questa volta, almeno, ce l’abbiamo fatta.

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Pentedattilo, mano d’artista

La più nota ed accessibile delle nostre città fantasma trae il proprio nome da un’analogia così immediata ed evidente che davvero non la si sarebbe potuta chiamare altrimenti. È uno di quei casi in cui il nome attribuito sembra emanare dal luogo stesso, come fosse incorporato alla località in questione.

Pentedattilo, cinque dita – ovviamente in greco antico, perché questa mano gigante di pietra segnala l’ingresso nell’area grecanica – si staglia su un colle poco distante dal mare in prossimità della città di Melito Porto Salvo e, pur essendo un paese collinare, offre già al visitatore un accenno di paesaggio del versante orientale dell’Aspromonte, in cui isolati picchi di roccia, gole, canyon, vaste fiumare, campi brulli e bruciati dal sole si alternano senza soluzione di continuità.

Di tutte le drammatiche storie di emigrazione e spostamento coatto della popolazione che caratterizzano le nostre città-fantasma, quella di Pentedattilo è, per dir così, la meno sofferta: il paese nuovo sorge solamente un chilometro più a valle, e agli abitanti è rimasto il conforto della visione quotidiana del paese natio, di questa manona di arenaria che, nonostante tutto, continua ad ergersi maestosa, quasi in un saluto solenne.

È sembrato più volte, nel corso dei secoli, che questa grande rocca fosse sul punto di crollare, franare, rovinare al suolo, e la natura non è certo stata, nei suoi confronti, una madre clemente. Terremoti, alluvioni, bufere, e poi ancora scosse e altra pioggia e altre scosse. Nel 1783 ci fu una sequenza sismica così impressionante che il paese ne uscì fortemente ridimensionato. Molti abitanti si spostarono verso la marina iniziando quel processo di spopolamento che si sarebbe concluso intorno agli anni ’60 del ‘900. Dell’antica urbanizzazione non era rimasto più niente, né case, né botteghe, né scuole.

La mano di roccia era ormai una croce sulla lapide di un paese che muore. Eppure resisteva, la mano, e seppur colpita, ferita, scheggiata, era ancora lì, erta e solenne come l’aveva rappresentata Maurits Cornelis Escher, ed Edward Lear prima di lui.

Perché Pentedattilo è un’opera d’arte, un quadro, una pittura, e qualsiasi artista si trovi al suo cospetto resta rapito, stregato, se ne innamora. E, come per un magico gioco di corrispondenze, è proprio l’arte che restituisce  e riporta oggi, a Pentedattilo, la vita. Ripreso e restaurato da un gruppo di associazioni a partire dagli anni ’90, il borgo è oggi visitabile in totale sicurezza e costituisce lo splendido scenario di diverse manifestazioni culturali, come il Festival Paleariza o il Pentedattilo Film Fest. Allo stesso tempo, il recupero delle casette abbandonate ha permesso la creazione di una serie di piccole botteghe artigiane, nelle quali si lavorano il legno, la pietra, il vetro. Si scolpisce, si incide, si dipinge, si recuperano saperi antichi.

Il benvenuto nel borgo rinnovato te lo dà Giorgio, con il suo temperamento esuberante e la sua naturale propensione all’accoglienza. Ama parlare, Giorgio, raccontare le storie della Pentedattilo di ieri e di oggi. E racconta, Giorgio, tutte le storie: quelle vere, quelle plausibili, quelle improbabili, quelle assurde – spesso mescolando e sovrapponendo i diversi piani.

Tutte le storie, racconta Giorgio: quelle legate alla strage degli Alberti, di cui qui non dirò nulla per non rovinargli l’emozione di raccontartela lui per primo, e quelle legate ad una certa leggenda, di cui qui non dirò nulla perché non la ricordo molto bene, e allora meglio chiedere direttamente a lui.

Se deciderai di percorrere l’erta salita che porta su, in cima, ai ruderi del castello, potrai anche immaginare lo scenario che fece da sfondo a queste storie. Nel frattempo, il giallo brillante della ginestra fiorita e il profumo intenso di origano, rosmarino, finocchietto selvatico, ti ricorderanno ad ogni passo che la nazione in cui ti trovi si chiama Mediterraneo. Tornato giù in paese, se il tempo è buono e l’aria limpida e tersa, affacciandoti dal belvedere potrai ammirare l’Etna in tutta la sua maestosità. La mano gigante – che sembra adesso però quasi piccola al confronto – lo saluta decisa, ed avrai voglia di farlo anche tu. E lui, vulcano, fumando, risponderà ad entrambi.

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Roghudi, maledetta bellezza

C’è un turismo che non è per tutti. C’è un turismo che esige rispetto, silenzio, ascolto dei luoghi. Se per te non è il momento, se non è quello che cerchi, se non ne avverti la necessità, quindi, meglio lasciar perdere, o rimandare questo viaggio ad un’altra stagione della tua vita.

La città di Roghudi vecchia è uno di quei luoghi capaci di trasmetterti un senso del tragico così potente da togliere il fiato. È un teatro di guerra, Roghudi vecchia, lo scenario di numerose battaglie che videro contrapporsi nei secoli gli abitanti, caparbi e duri, e le titaniche forze della natura. L’ultimo aspro scontro, avvenuto ormai sei decenni fa, sancì la definitiva vittoria delle seconde sui primi. Gli uomini e le donne, ormai impotenti ed atterriti dall’ultima, fatale, sconfitta, dovettero andar via. Lo fecero tristemente, con delle valigie logore e precarie, rimediate in fretta e furia per trasportare i loro pochi e miseri beni. La loro destinazione era uno di quei non luoghi tipici delle urbanizzazioni più recenti, uno di quei villaggi anonimi e senza identità che i nostri governanti amano costruire per sistemarvi i terremotati e gli sfollati. Tante casette tutte uguali, brutte e squadrate come container, sopra una colata di cemento grigio. Niente piazze, né parchi, né fontane. Niente panchine e niente alberi alla cui ombra poter sostare. Io non ci vivrei mai in un posto così. Di fatti, non ci vivono neanche loro.

La loro Roghudi, l’originale, quella vera, pulsa ancora nei ricordi di queste persone, alimentando una nostalgia profonda che si trasmette di generazione in generazione, come fosse parte del Dna. Gli abitanti di Roghudi, di fatto, continuano ad essere così legati al paese da farne oggetto continuo di pensieri, ricordi, memorie. E, così facendo, lo tengono in vita.

E continuano persino a frequentarlo, questo paese, recandovisi almeno una volta l’anno, nel giorno della festa. È lì che, tra vino, musica e cibi tradizionali, l’esilio termina, per un giorno, e si ricostruisce la comunità.

Ecco, se decidi di visitare Roghudi vecchia, non dimenticare quanto hai appena letto. Tienilo bene a mente quando percorrerai una delle due strade che portano lì, entrambe impervie, sconnesse, maledette. Tienilo a mente quando sbircerai dalle finestre delle case, per osservare gli interni che portano i segni inconfondibili di un abbandono fugace e quelli del tempo e della natura che si riprende, inesorabilmente, ogni cosa. Non dimenticarlo quando, dal punto più esposto della rupe, osserverai il paesaggio e ti smarrirai nell’estasi della contemplazione: non è comune, questa bellezza, non può esserlo. È la bellezza sublime di ciò che ti annulla e ti sovrasta, che stabilisce il tuo destino e dispone della tua esistenza. Bellezza inaccessibile, crudele, ingrata. Bellezza maledetta d’Aspromonte.

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Guida al mare di Reggio e provincia (parte I): Il Messicano

Il Messicano è un signore originario di Bergamo alta stabilitosi in Calabria molti anni fa che gestisce con la propria famiglia un piccolo bar sulla spiaggia pubblica in prossimità di Marina di San Lorenzo. Non parla spagnolo, non ascolta musica caraibica, non presenta alcun accenno alla messicanità. Il suo locale si chiama “L’Azzurro” e offre normalissimi gelati, bibite varie e qualche pietanza tipicamente estiva.

I dettagli sono, alle volte, estremamente importanti. Alcune volte, capita che sia proprio un dettaglio a stabilire definitivamente la tua caratterizzazione, la tua identità. Così, un giorno di molti anni fa, questo signore, insieme a tanti altri arredi più o meno approssimativi ed improbabili ed accanto al gagliardetto dell’Atalanta, appese nel suo locale anche un sombrero recuperato chissà come e chissà dove, e tanto bastò affinché diventasse ufficialmente per tutti “Il messicano”, e affinché questo soprannome si estendesse anche al bar e alla spiaggia circostante.

Il bar del messicano è uno di quei posti che se fosse gestito diversamente potrebbe fare milioni, ma è uno di quei posti che, se fosse gestito diversamente, smetterei di frequentare. Perciò preferisco tenermelo così com’è e fin quando durerà, con tutti quei difetti che indubbiamente ha e che – meglio avvisare – lo caratterizzano almeno quanto il suo nome. Questo classico chiringuito, questo baretto sulla spiaggia dotato di servizi igienici, di una rudimentale doccia a gettoni e di una rusticissima veranda con tavolini e sedie in plastica rossa, è per me uno dei posti più belli del mondo, e da anni fa da sfondo ai momenti più felici di ogni mia estate.

La spiaggia su cui affaccia il messicano è un angolo di paradiso, stretto tra una colonia di agavi giganti e l’azzurro intenso che lega insieme cielo e mare. Formata da sassolini così piccoli da sembrare sabbia che diventano però progressivamente più grandi man mano che ci si avvicina al mare, questa spiaggia è troppo grande per essere riempita dalle (poche) persone che solitamente la frequentano e, a parte pochi giorni di grande affluenza, non si avrà mai difficoltà a trovare un angolo tranquillo e sufficientemente distante dagli altri bagnanti. Normalmente in prossimità di questa spiaggia l’acqua è tra le più calme, limpide e calde che io abbia mai visto. Ci troviamo, qui, sulle coste del mare Ionio, e le correnti forti e gelide dello Stretto sono ormai lontane. È un mare placido, tranquillo, pacificato e reso saggio dall’infinità di popoli e di culture che lo hanno solcato nel corso dei millenni. È il mare antico di una spiaggia selvaggia.

In questo contesto, il Messicano è l’unica concessione possibile agli agi e alle comodità. A meno che tu non voglia semplicemente una birra o un ghiacciolo, sarà meglio avvisarlo per tempo che intendi mangiare lì. Lui ti dirà di andare a fare un tuffo e ritornare dopo un po’, anche se stai appunto risalendo dal mare, anche se il bagno lo hai già fatto, anche se hai i capelli ancora gocciolanti e le dita gonfie e spugnose (in dialetto “rrappate”) di chi a mollo c’è stato un po’ troppo. Qualsiasi cosa tu decida di fare, dopo un’attesa indefinita – e indefinitamente lunga – ti verrà servita una frittura di pesce tra le migliori che tu abbia mai mangiato o una caponata (pan biscotto condito con olio, sale, pomodoro, olive, origano e basilico) di una bontà commuovente. E non è solamente l’attesa del cibo: sarà l’intero pasto, dall’assegnazione del tavolo fino al conto (che chiederai più e più volte fin quando non deciderai di alzarti e andare a pagare direttamente alla cassa) ad essere scandito dai ritmi inesorabilmente lenti dell’inedia, ma questo luogo è così bello che ciò diventa addirittura piacevole. Siamo in un mondo altro, parallelo, che non contempla la prestazione, la corsa, l’efficienza. Siamo in un mondo statico, nel regno dell’agave: osservala, adeguati, inizia a somigliarle diventando immobile anche tu.

Cotto dal sole, sfiancata dal mare, sotto l’ombra di quella veranda ti potrai rilassare, assaporando l’inazione.

In effetti, a ripensarci adesso che lo descrivo, in quel posto che tanto adoro non c’è nulla di speciale: delle agavi, una bella costa, un baretto sulla spiaggia, attese lunghe e qualche contrattempo. Una serie di dettagli. Ma che sono, alle volte, estremamente importanti: l’insostituibile sfondo dei momenti più felici di ogni mia estate.

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Se un pomeriggio d’estate un viaggiatore

Noi di Villa Lavinia amiamo la letteratura.

I libri, i racconti, la narrativa, sono aria per la mente e cibo per l’anima. Alla fine di ogni giornata, arriva un momento in cui nulla può far stare bene quanto sedersi in un angolino tranquillo, sorseggiare una bibita o un bicchiere di vino e intraprendere una nuova lettura – o proseguirne una già iniziata.

È esattamente a questo che ci siamo ispirati quando abbiamo deciso di allestire, ad uso esclusivo delle camere con balconcino, questo nuovo spazio, questo “angolo del lettore”. E il nostro desiderio è che lo si utilizzi così, che molti libri vengano letti – e molti bicchieri di buon vino sorseggiati – su quel tavolino.

Si dice che leggere è come viaggiare: chi legge in viaggio… viaggia due volte!

suggestioni

Fatti di vento, di terra, di mare

Il vento è come il viaggio. Travalica i confini, si sposta nello spazio, mette in contatto luoghi e culture diverse, sospinto da una forza che, lungi dall’esaurirsi, si trasformerà, dando origine ad altri spostamenti, ad un vento di tipo nuovo.

Il vento è assenza di confine ed è, per questo, libertà.

Nel nostro piccolo angolino di mondo, il signore incontrastato dei venti è, senza dubbio, lo Scirocco. Questo vento caldo di sud-est, che spira forte per tre giorni e annebbia il cielo con la terra rossa del Sahara, ha talvolta una forza devastante; in ogni caso, influisce sulle nostre esistenze, condiziona i nostri umori, con la calura che invita all’inedia e la polvere che offusca la vista e intorpidisce i pensieri.

Lo Scirocco è una mentalità, uno stile di vita, una cultura che spiega bene, a chi vuol vedere, che la vera nazione a cui apparteniamo è più vasta ed è trasversale. Si chiama Mediterraneo e riunisce un’infinità di sponde. È una nazione di naviganti, di giramondo, di curiosi, una nazione basata sul vento e sulle correnti. Il nostro eroe si chiama Ulisse: con il più emblematico dei viaggi, diede voce alla nostra inquietudine.

“Lo Scirocco brucia le piante più del sole” dice Zenon, giardiniere che occasionalmente mi aiuta a curare il verde della Villa. Cittadino polacco, vive qui da molti anni, e il suo viaggio ha seguito le rotte della Tramontana. Forse è per questo che ancora non si è abituato alla potenza del nostro signore dei Venti, e prosegue una battaglia che lo rende, ai miei occhi, un personaggio letterario, un tipo da romanzo: un Don Chisciotte contemporaneo, che bypassa i mulini per prendersela direttamente con il vento.

Noi, invece, sappiamo bene che quando Scirocco soffia non c’è nulla da fare, se non assecondarlo, restare in balìa del vento e dei nostri umori, aspettando che passi.

Si chiama resilienza e nessuno ha mai detto che sia facile.