Diario, guida sentimentale di Reggio e provincia, Idee di viaggio

La Via del Torrone

C’è una strada che mi piace un sacco. Come si chiami, non l’ho mai saputo, e in fondo non occorre. E’ quella che da Gioia Tauro conduce a Cittanova, attraversando il territorio che chiamiamo “Piana”.

Ha bei paesaggi? Non direi, qualche scorcio forse. E’ bucolica e tranquilla? Per niente: è frenetica e scintillante come una qualsiasi arteria centrale di una qualsiasi metropoli; lo è a tal punto che passi tra uliveti secolari per quasi tutto il tragitto e neanche te ne accorgi, tanto ti distraggono le luci, il traffico, i rumori. E’ una strada di campagna? Sì, penso che possiamo dire così. E’ provinciale? Assolutamente no: è dinamica e irrequieta come fosse il centro del mondo.

 

Perché mi piace? Perché è unica. Solo questo? Soprattutto questo, ma non solo. E cos’altro? Una parola: torroni. Con quattro parole, mi spiego meglio: produzioni artigianali di torroni. Ovunque. Per tutto il tragitto. E’ praticamente una via dulcis, in cui ogni stazione è un bar, ma non un bar qualsiasi: uno dei più belli al mondo. E ognuno di questi scintillanti bar ha al suo interno il suo scintillante banco dei torroni. Morbidi, croccanti, al bergamotto, con miele e mandorle, al rhum, con le nocciole, all’arancia, torrefatti, al cedro, dite voi un gusto: ci sarà. Bar famosi, rinomati, di cui basta udire il nome per ritrovarsi all’improvviso con l’acquolina in bocca. Figuratevi a entrarci dentro!

C’è una strada che mi piace un sacco, e in un certo periodo dell’anno mi piace ancor di più. E’ quando l’approssimarsi del Natale la rende ancora più frenetica e scintillante di quanto non lo sia già nella normalità. Come si chiami, non l’ho mai saputo, e forse non importa. La chiameremo Via del Torrone, e io ieri l’ho percorsa per voi 😉

 

 

Storia

L’ultima fattucchiera

La storia che voglio raccontare oggi non c’entra niente col turismo o con i viaggi, né con l’enogastronomia o l’artigianato locale. Riguarda sempre – questo sì – la Calabria; l’ho scoperta casualmente qualche giorno fa, mi ha molto colpita e voglio condividerla con voi.

E’ la storia di una donna. Si chiama Cecilia Faragò ed è l’ultima fattucchiera.

Soveria Mannelli, diciottesimo secolo. Età dei Lumi, per qualcuno; per molte altre persone forse no. Non stava male, Cecilia: aveva terreni e campi coltivati. Aveva anche un marito, che non era poi così male, se non fosse per il fatto che viveva costantemente nel terrore. Di qualsiasi cosa: della miseria, delle carestie, della malattia. Soprattutto, della morte. Un bel giorno, due sacerdoti gli assicurarono che se avesse donato loro tutti i propri beni, dopo la morte sarebbe stato certamente accolto con giubilo nel regno dei cieli. Lui così fece e, malauguratamente, dopo poco morì. Rimase Cecilia, sola, a fronteggiare i due sacerdoti, che subito dopo la morte del marito si accinsero a reclamare – e prendere – il possesso di tutti i suoi averi, nella convinzione che la vita ultraterrena del consorte valesse più della sopravvivenza mondana di Cecilia. Ma lei era di altro avviso, e allora si oppose, battagliò, protestò.

A quel tempo – e, in fondo, non solo a quel tempo – il modo più semplice per mettere a tacere una donna e liberarsi di lei era accusarla di stregoneria. L’accusa perfetta: non richiedeva altre prove se non il pregiudizio, il senso comune e le tante disgrazie che capitano ahimè normalmente nella vita. Cecilia finì in prigione; davanti a lei, lo spettro di una condanna a morte. Ma era capatosta, Cecilia, e non si arrese: scelse un avvocato e affrontò il processo con una determinazione e una grinta tale che non solo fu assolta, ma addirittura, a seguito di quel processo, il Regno di Napoli decise – primo in Europa – di abolire il reato di stregoneria. Cecilia aveva difeso egregiamente se stessa e insieme tantissime altre donne. Grazie al suo coraggio, la Calabria e tutto il Sud Italia entravano, primi in Europa, nell’età dei Lumi.

Leggendo il racconto della vita di Cecilia Faragò, ho pensato due cose: innanzitutto, che la grinta eccezionale di questa donna deve servire da esempio per tutte noi, e allora forse, per tenerne viva la memoria, dovremmo parlarne di più, raccontarla, intitolarle strade, piazze, rappresentarla in performance teatrali – cosa che a Soveria Mannelli fanno già da un po’. E poi ho pensato un’altra cosa. Mi son detta che per essere riuscita, lei donna sola, nella Calabria del ‘700, ad avere la meglio su due uomini di chiesa, ecco probabilmente un po’ fattucchiera lo era davvero! Quantomeno, aveva quel carisma straordinario che le ha permesso di compiere il… prodigio (?) di ottenere l’assoluzione.

E, vi dirò, essere fattucchiere… non è poi così male.

 

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Spostare le montagne

In autunno, com’è normale, il lavoro cala un po’ e allora io ne approfitto per visitare quelle parti di Calabria che ancora non conosco, per riprendere il mio percorso di esplorazione di una terra che non smette mai di sorprendere e di stupire, che sembra sempre più vasta – direi sconfinata – quanto più se ne sonda la profondità.

Non lo si sottolinea mai abbastanza: la Calabria è conosciuta per il mare (in effetti, ne abbiamo 2) ma la nostra vera ricchezza sono le aree interne. Forse iniziamo un po’ a capirlo, ma non ne siamo ancora del tutto consapevoli. Noi calabresi rivolgiamo alle nostre aree interne uno sguardo ambiguo, ambivalente: da una parte, non possiamo dimenticare secoli di miseria, povertà, privazioni e isolamento delle nostre genti, una situazione così marcata e potente da cancellare, nelle nostre memorie, lo splendore e i fasti delle età più antiche; d’altra parte, è però innegabile che questi paesaggi così arcaici e suggestivi esercitano su di noi un fascino magnetico, toccano le corde più profonde del nostro essere e ci fanno sentire a casa.

Ambivalente è anche il nostro comportamento: alcune e alcuni di noi dedicano la propria vita al recupero sociale, culturale ed economico delle nostre aree interne e si riuniscono in associazioni e movimenti per progettare un futuro, garantire una salvezza. Allo stesso tempo, altre persone… beh, se dipendesse da loro, il futuro della mia terra sarebbe una cremazione, un mucchietto di cenere che lo scirocco e la boria spazzerebbero via come niente. Questa estate in Aspromonte oltre 7mila ettari di bosco sono andati in fumo. Una tragedia che ci ha colpito dritto al cuore. E’ terribile, il fuoco. Divora tutto e non rimane niente. Occorre allora impegnarsi il doppio, il triplo, mille volte tanto, per rinascere dalle ceneri. A volte succede.

Nel 2002 un incendio colpì l’area boschiva che circonda il comune di Nardodipace, situato al confine tra la zona della Locride (RC) e quella delle Serre (CZ). E se il fuoco distrugge sempre, questa volta ha rivelato. Ha permesso che tornassero alla luce delle opere megalitiche risalenti al V millennio a. C. “La Stonehenge calabrese”, l’abbiamo chiamata. Una serie di rocce enormi accatastate le une sulle altre e tenute insieme da un equilibrio basato unicamente sul loro peso. Né cemento, né malta: solo forza di gravità, la stessa forza che ci è voluta per creare queste formazioni.

Una volta gli uomini e le donne spostavano letteralmente le montagne. E ancora oggi, in senso figurato, continuano a farlo con la stessa forza, cercando di tenere insieme senza cemento né malta un territorio che rischia la crisi perenne, lo sfilacciamento, l’abbandono, la disgregazione. Il fuoco e la cenere.

Non è detto che sempre riusciremo a rinascere. Questa volta, almeno, ce l’abbiamo fatta.

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Oltre l’emergenza

Un’emergenza è un’emergenza.

E non riguarda solamente le persone anziane o vulnerabili. Riguarda tutte e tutti noi, perché la “vita civile” ha senso solamente se delle persone più deboli ci prendiamo cura, se loro salvaguardia e la loro protezione diventano un problema collettivo.

È un momento difficile, forse il più difficile da quando abbiamo avviato questa attività. Ed è un momento drammatico per l’intero Paese. Se questa storia ha una morale, un qualcosa da insegnarci, è che siamo una comunità. Siamo strettamente legati tra di noi, e il destino dell’altro ci riguarda, di più: il destino dell’altro è il nostro destino.

Non so ancora se Villa Lavinia resterà aperta o se chiuderemo per un po’, ma voglio rivolgere un grande, grandissimo abbraccio – nell’unica forma possibile, cioè quella virtuale – a tutti gli amici e le amiche delle zone più colpite che in questi anni sono venute a trovarci, a tutte le persone che soffrono per la malattia; ai colleghi e alle colleghe e più in generale a tutte le persone improvvisamente catapultate in uno stato di crisi e di incertezza lavorativa. Più saremo responsabili e solidali e prima ne usciremo.

Stamattina, all’alba, mentre mi ricavo a Villa Lavinia con un vassoio di cornetti caldi in mano, uno splendido arcobaleno, esteso e perfetto, sormontava ed incorniciava la mia città. Non credo nei segni, non credo nel destino e non si può certo dire che io abbia fede. Ma mi ha dato speranza, e non so perché. Un abbraccio gigante e a presto,

Chiara, Villa Lavinia.

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Because MèNonnu

Ci sono storie che riassumono in sé le vicende ed i destini di un intero popolo. Storie così tipicamente meridionali che solo chi è “terrone” come me può capirle a pieno, coglierne i significati profondi, restarne coinvolto e lasciarsi emozionare.

Il protagonista del racconto di oggi è Michael, 21enne australiano, fisico robusto di chi è in buona salute e sguardo genuino d’altri tempi, di chi è riuscito a rimanere saldamente legato alle proprie buone radici. E un non so che di familiare, nonostante arrivi dall’altra parte del mondo. E’ qui con la madre, per una tappa reggina di due giorni nel loro bel viaggio alla scoperta del Sud Italia.

Li accolgo due giorni fa, in un venerdì pomeriggio di fine estate e, dispiegando la cartina, inizio ad illustrare i principali punti di interesse della mia città. Mi interrompe: “Excuse me – dice – there is some way to visit Aspromonte?” Mi fermo a riflettere un attimo alla ricerca di soluzioni: l’Aspromonte non è, purtroppo, ben collegato, ed è difficile visitarlo quando non si dispone di mezzi propri. Vedendomi pensierosa, aggiunge: “I would like to visit Aspromonte because MENONNU was from Oppido Mamertina”. In un attimo, quel non so che di familiare mi diventa subito chiaro: Michael è uno di noi, figlio e nipote di questa terra e della sue diaspore. Michael è una pagina della nostra storia.

Lo guardo negli occhi, lo vedo commosso, e come lui la madre. La loro emozione diventa la mia. Ci penso un attimo: sono stanca, è stata un’estate lunga e faticosa, ho sonno arretrato e bisogno di riposo. Solo un attimo: Al diavolo! dico tra me – e poi, a voce alta ” Non c’è un modo agevole per arrivare a Oppido ma, se volete, vi ci porto io! Il mio compagno insegna lì e la conosce bene, ci potrebbe accompagnare. Potremmo andare domenica mattina, che ne dite?” La gioia nei loro occhi ha risposto per loro. Da buon nipote di un emigrante aspromontano, inoltre, Michael suona benissimo l’organetto. “I know your music, i SONU ORGANETTU” mi dice. Spiego loro che quello non è un venerdì qualunque: è la vigilia di Festa di Madonna, la nostra festa patronale, la celebrazione più importante dell’anno. Quella che risveglia le nostre tradizioni e le fa esplodere in modo spontaneo e potente per le vie della città. Dalla religiosità popolare, al cibo, alla musica: Michael aveva un’occasione unica per vedere finalmente con i propri occhi quel mondo arcaico e lontano del quale aveva a lungo sentito parlare.

Incontro nuovamente la madre ieri mattina a colazione. Mi saluta con un sorriso, mi mostra un video girato con il telefono la sera prima. Michael è in una via del centro, ha un organetto in mano, lo suona ed è bravissimo. Accanto a lui, altri suonatori con la lira, la chitarra, il tamburello. La gente osserva e applaude con convinzione, qualcuno balla.

…ed io adesso continuerei a parlare per ore della potenza di questa storia e delle emozioni che ha scatenato. Ma devo fermarmi qui: è domenica mattina e ho un impegno importante, in un piccolo comune dell’Aspromonte tirrenico ad un’oretta di macchina da qui. Un paese ormai svuotato, quasi totalmente, da un’emigrazione secolare che non conosce fine. E che rimane però incredibilmente vivo nella memoria e nei sogni dei suoi molti, moltissimi nipoti lontani.

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Pentedattilo, mano d’artista

La più nota ed accessibile delle nostre città fantasma trae il proprio nome da un’analogia così immediata ed evidente che davvero non la si sarebbe potuta chiamare altrimenti. È uno di quei casi in cui il nome attribuito sembra emanare dal luogo stesso, come fosse incorporato alla località in questione.

Pentedattilo, cinque dita – ovviamente in greco antico, perché questa mano gigante di pietra segnala l’ingresso nell’area grecanica – si staglia su un colle poco distante dal mare in prossimità della città di Melito Porto Salvo e, pur essendo un paese collinare, offre già al visitatore un accenno di paesaggio del versante orientale dell’Aspromonte, in cui isolati picchi di roccia, gole, canyon, vaste fiumare, campi brulli e bruciati dal sole si alternano senza soluzione di continuità.

Di tutte le drammatiche storie di emigrazione e spostamento coatto della popolazione che caratterizzano le nostre città-fantasma, quella di Pentedattilo è, per dir così, la meno sofferta: il paese nuovo sorge solamente un chilometro più a valle, e agli abitanti è rimasto il conforto della visione quotidiana del paese natio, di questa manona di arenaria che, nonostante tutto, continua ad ergersi maestosa, quasi in un saluto solenne.

È sembrato più volte, nel corso dei secoli, che questa grande rocca fosse sul punto di crollare, franare, rovinare al suolo, e la natura non è certo stata, nei suoi confronti, una madre clemente. Terremoti, alluvioni, bufere, e poi ancora scosse e altra pioggia e altre scosse. Nel 1783 ci fu una sequenza sismica così impressionante che il paese ne uscì fortemente ridimensionato. Molti abitanti si spostarono verso la marina iniziando quel processo di spopolamento che si sarebbe concluso intorno agli anni ’60 del ‘900. Dell’antica urbanizzazione non era rimasto più niente, né case, né botteghe, né scuole.

La mano di roccia era ormai una croce sulla lapide di un paese che muore. Eppure resisteva, la mano, e seppur colpita, ferita, scheggiata, era ancora lì, erta e solenne come l’aveva rappresentata Maurits Cornelis Escher, ed Edward Lear prima di lui.

Perché Pentedattilo è un’opera d’arte, un quadro, una pittura, e qualsiasi artista si trovi al suo cospetto resta rapito, stregato, se ne innamora. E, come per un magico gioco di corrispondenze, è proprio l’arte che restituisce  e riporta oggi, a Pentedattilo, la vita. Ripreso e restaurato da un gruppo di associazioni a partire dagli anni ’90, il borgo è oggi visitabile in totale sicurezza e costituisce lo splendido scenario di diverse manifestazioni culturali, come il Festival Paleariza o il Pentedattilo Film Fest. Allo stesso tempo, il recupero delle casette abbandonate ha permesso la creazione di una serie di piccole botteghe artigiane, nelle quali si lavorano il legno, la pietra, il vetro. Si scolpisce, si incide, si dipinge, si recuperano saperi antichi.

Il benvenuto nel borgo rinnovato te lo dà Giorgio, con il suo temperamento esuberante e la sua naturale propensione all’accoglienza. Ama parlare, Giorgio, raccontare le storie della Pentedattilo di ieri e di oggi. E racconta, Giorgio, tutte le storie: quelle vere, quelle plausibili, quelle improbabili, quelle assurde – spesso mescolando e sovrapponendo i diversi piani.

Tutte le storie, racconta Giorgio: quelle legate alla strage degli Alberti, di cui qui non dirò nulla per non rovinargli l’emozione di raccontartela lui per primo, e quelle legate ad una certa leggenda, di cui qui non dirò nulla perché non la ricordo molto bene, e allora meglio chiedere direttamente a lui.

Se deciderai di percorrere l’erta salita che porta su, in cima, ai ruderi del castello, potrai anche immaginare lo scenario che fece da sfondo a queste storie. Nel frattempo, il giallo brillante della ginestra fiorita e il profumo intenso di origano, rosmarino, finocchietto selvatico, ti ricorderanno ad ogni passo che la nazione in cui ti trovi si chiama Mediterraneo. Tornato giù in paese, se il tempo è buono e l’aria limpida e tersa, affacciandoti dal belvedere potrai ammirare l’Etna in tutta la sua maestosità. La mano gigante – che sembra adesso però quasi piccola al confronto – lo saluta decisa, ed avrai voglia di farlo anche tu. E lui, vulcano, fumando, risponderà ad entrambi.

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Roghudi, maledetta bellezza

C’è un turismo che non è per tutti. C’è un turismo che esige rispetto, silenzio, ascolto dei luoghi. Se per te non è il momento, se non è quello che cerchi, se non ne avverti la necessità, quindi, meglio lasciar perdere, o rimandare questo viaggio ad un’altra stagione della tua vita.

La città di Roghudi vecchia è uno di quei luoghi capaci di trasmetterti un senso del tragico così potente da togliere il fiato. È un teatro di guerra, Roghudi vecchia, lo scenario di numerose battaglie che videro contrapporsi nei secoli gli abitanti, caparbi e duri, e le titaniche forze della natura. L’ultimo aspro scontro, avvenuto ormai sei decenni fa, sancì la definitiva vittoria delle seconde sui primi. Gli uomini e le donne, ormai impotenti ed atterriti dall’ultima, fatale, sconfitta, dovettero andar via. Lo fecero tristemente, con delle valigie logore e precarie, rimediate in fretta e furia per trasportare i loro pochi e miseri beni. La loro destinazione era uno di quei non luoghi tipici delle urbanizzazioni più recenti, uno di quei villaggi anonimi e senza identità che i nostri governanti amano costruire per sistemarvi i terremotati e gli sfollati. Tante casette tutte uguali, brutte e squadrate come container, sopra una colata di cemento grigio. Niente piazze, né parchi, né fontane. Niente panchine e niente alberi alla cui ombra poter sostare. Io non ci vivrei mai in un posto così. Di fatti, non ci vivono neanche loro.

La loro Roghudi, l’originale, quella vera, pulsa ancora nei ricordi di queste persone, alimentando una nostalgia profonda che si trasmette di generazione in generazione, come fosse parte del Dna. Gli abitanti di Roghudi, di fatto, continuano ad essere così legati al paese da farne oggetto continuo di pensieri, ricordi, memorie. E, così facendo, lo tengono in vita.

E continuano persino a frequentarlo, questo paese, recandovisi almeno una volta l’anno, nel giorno della festa. È lì che, tra vino, musica e cibi tradizionali, l’esilio termina, per un giorno, e si ricostruisce la comunità.

Ecco, se decidi di visitare Roghudi vecchia, non dimenticare quanto hai appena letto. Tienilo bene a mente quando percorrerai una delle due strade che portano lì, entrambe impervie, sconnesse, maledette. Tienilo a mente quando sbircerai dalle finestre delle case, per osservare gli interni che portano i segni inconfondibili di un abbandono fugace e quelli del tempo e della natura che si riprende, inesorabilmente, ogni cosa. Non dimenticarlo quando, dal punto più esposto della rupe, osserverai il paesaggio e ti smarrirai nell’estasi della contemplazione: non è comune, questa bellezza, non può esserlo. È la bellezza sublime di ciò che ti annulla e ti sovrasta, che stabilisce il tuo destino e dispone della tua esistenza. Bellezza inaccessibile, crudele, ingrata. Bellezza maledetta d’Aspromonte.

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A Gallicianò.

A Gallicianò l’ospite è sacro. È sacro come lo era nella cultura millenaria della Magna Grecia, cultura della quale questo piccolo borgo aspromontano ha conservato splendidamente, nel corso dei secoli, il carattere, le tradizioni, in una parola l’anima. “Apri la porta, affinché entri il sole” – o meglio, “Anisce tìn porta, na mbèi o ìglio” perché, dell’antica Grecia, Gallicianò ha conservato persino la lingua – è l’espressione che fu usata da un abitante del paese ormai più di mezzo secolo fa per sancire l’ingresso in casa propria di un’ospite speciale, e da quel giorno è diventata la formula magica di ogni nuovo ingresso, di ogni accoglienza.

In questo piccolo splendido borgo, l’ospite è il sole. È il sole ed è luce, l’ospite, per Gallicianò e la sua gente, per un popolo che sentì forte, secoli fa, la necessità di nascondersi tra queste dure ed aspre vette e che oggi, di quella scelta, è costretto a pagarne le conseguenze amare. L’isolamento, l’abbandono, l’emigrazione. Se sei una delle quaranta persone rimaste stabilmente ad abitare qui – a volte gli uomini e le donne hanno radici incredibilmente forti e tenaci – ed assisti ogni giorno all’inesorabile spopolamento del tuo paese natio, si capisce bene come ogni visita inattesa, ogni novità, ogni evento che possa portare un po’ di vita sia per te, semplicemente, luce, semplicemente il sole.

Non è molto facile arrivare a Gallicianò, e la strada che si dovrà percorrere mostra bene fino a che punto sia stata anticamente vitale per queste genti la necessità di nascondersi, di trovare riparo da aggressioni e saccheggi. Abbandonando la ss 106 ionica in prossimità di Condofuri marina, si imbocca una strada che risale la fiumara dell’Amendolea, regalando scorci e panorami così incredibili e spettacolari che -posso assicurare- qualsiasi fatica dell’autista o del viaggiatore sarà interamente – e anche più – ripagata. Alla propria destra sarà possibile scorgere le rovine del castello Ruffo e, più in alto, i ruderi del castello normanno di Bova, in questo percorso magico ed evocativo che non è un semplice spostamento, ma un vero e proprio viaggio nello spazio-tempo. Come se risalire la fiumara permettesse di ripercorrere a ritroso anche la storia, addentrandosi gradualmente, secolo dopo secolo, per poi ritrovarsi spettatori di un’età antica, di quell’epoca arcaica nella quale le prime società impiegavano tutte le proprie energie e i propri sforzi nell’impresa immane di addomesticare le forze della natura e rendere abitabile il proprio territorio. Così, tra vestigia di antiche civiltà, spuntoni di rocce e canyon mozzafiato, superato il ponte che oltrepassa la fiumara, si imbocca la strada che, inerpicandosi su un colle scosceso di ulivi e querce, conduce a Gallicianò.

Sarà necessario arrivare per rendersene conto, perché il paese rimane nascosto, celato fino alla fine del tragitto. E lo si troverà così: rosso di cotto, grigio di roccia e ombreggiato com’è ombreggiata la valle sulla quale è adagiato. Vi è, in tutto il paese, solamente un punto in cui almeno per qualche minuto, in ogni stagione e ogni giorno dell’anno, batte sempre il sole, ed è la chiesa bizantina edificata sulla sommità del borgo. La chiesa è oggi ristrutturata e visitabile e, in virtù della particolare atmosfera creata dal drappeggio, dalle candele, dalle decine di icone sacre dai decori raffinati e preziosi, non è necessario essere credenti per percepirne, palpabile, la magia.

Come fare per prenotare una visita guidata? Basta recarsi nella piazza del paese e parlare con la prima persona che si incontra lungo la via. Con tutta probabilità, quella persona è una guida, oppure conosce qualcuna delle guide del borgo, che accorrerà prontamente con un gran mazzo di chiavi per aprire tutti gli scrigni pieni di piccoli tesori che Gallicianò può offrire ai propri ospiti: le due chiese, il museo etnografico, la locanda.

La nostra guida si chiama Giovanni, e il suo volto ha i colori così intensi e i tratti così definiti che sembra quasi un dipinto, una pittura. Uno di quei quadri siciliani che raffigurano i mori o i personaggi cavallereschi dell’epopea dei pupi. Capelli e occhi di un nero intensissimo, labbra rosse come ciliegie, pelle mediterranea arsa dal sole. Il suo arrivo è preannunciato da Nino, gestore della locanda di Gallicianò, che ci raggiunge in motorino nei pressi della chiesa bizantina, sulla sommità del colle. È in effetti un po’ bizzarro veder spuntare un abitante in sella a un motorino, come lo è udire, di tanto in tanto, il rumore di questi mezzi utilizzati all’interno del paese, unica concessione alla modernità in un panorama sonoro che per il resto alterna il cinguettio degli uccelli ai belati delle capre e allo scrosciare del piccolo corso d’acqua che converge nell’unica fontana. È bizzarro perché il paese è minuscolo e si gira interamente a piedi in pochi minuti; ma le salite sono irte e gli abitanti, alle volte, indaffarati, perché, proprio come nelle tradizionali società agricole o pastorali, qui si è abituati a provvedere da sé praticamente per qualsiasi cosa. E allora ognuno cura il proprio orto, produce il proprio vino e le proprie conserve, porta al pascolo il gregge, ristruttura da sé la propria casa, sistema e mantiene i muretti a secco che delimitano gli orti, i giardini e le aiuole. Proprio come una volta, quando non esisteva la divisione tra tempo libero e lavorativo ed esisteva invece, semplicemente, il tempo. Ecco, il motorino, di tempo – e fatica – te ne fa risparmiare parecchio.

Questa commistione tra tempo lavorativo e normale quotidianità è particolarmente evidente alla locanda del paese, gestita da Nino e dai suoi familiari e “aperta solo su prenotazione”. In realtà, basta telefonare anche poco prima, se lo si decide all’ultimo, e Nino ti dirà “Non ti preoccupare, vieni, ché qualche cosa la arrangiamo”. E il suo “arrangiare” è quello dei calabresi: prevede una mezza dozzina di portate e ti lascerà andar via solo quando sarai completamente sazio e ristorato dalla genuinità delle pietanze e dal calore dell’accoglienza e, ovviamente, del vino – che è quello che producono e bevono loro stessi. È praticamente un pranzo (o una cena) in famiglia e non può essere altrimenti. E quando, a fine pasto, si chiacchiera insieme sorseggiando un buon amaro o un caffè – o più probabilmente entrambe le cose – il continuo andirivieni dei vicini di casa che offrono il loro aiuto o semplicemente la loro compagnia ti fa realizzare un fatto incontestabile: a Gallicianò l’ospitalità è veramente diffusa, nel senso che lì sei, nello stesso momento, ospite di tutti quanti.

Gallicianò ti adotta, ti assiste, si prende cura di te dal momento in cui arrivi fino a quando non riparti. Ti parla, ti ascolta, ti apre le porte. E quando, a tarda notte, riscenderai dal colle verso la fiumara  per far ritorno a casa, lo spettacolo di un cielo incredibilmente stellato sarà per te l’ultima coccola, l’ultimo prezioso regalo, di questa antica e sacra accoglienza.

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Guida al mare di Reggio e provincia (parte I): Il Messicano

Il Messicano è un signore originario di Bergamo alta stabilitosi in Calabria molti anni fa che gestisce con la propria famiglia un piccolo bar sulla spiaggia pubblica in prossimità di Marina di San Lorenzo. Non parla spagnolo, non ascolta musica caraibica, non presenta alcun accenno alla messicanità. Il suo locale si chiama “L’Azzurro” e offre normalissimi gelati, bibite varie e qualche pietanza tipicamente estiva.

I dettagli sono, alle volte, estremamente importanti. Alcune volte, capita che sia proprio un dettaglio a stabilire definitivamente la tua caratterizzazione, la tua identità. Così, un giorno di molti anni fa, questo signore, insieme a tanti altri arredi più o meno approssimativi ed improbabili ed accanto al gagliardetto dell’Atalanta, appese nel suo locale anche un sombrero recuperato chissà come e chissà dove, e tanto bastò affinché diventasse ufficialmente per tutti “Il messicano”, e affinché questo soprannome si estendesse anche al bar e alla spiaggia circostante.

Il bar del messicano è uno di quei posti che se fosse gestito diversamente potrebbe fare milioni, ma è uno di quei posti che, se fosse gestito diversamente, smetterei di frequentare. Perciò preferisco tenermelo così com’è e fin quando durerà, con tutti quei difetti che indubbiamente ha e che – meglio avvisare – lo caratterizzano almeno quanto il suo nome. Questo classico chiringuito, questo baretto sulla spiaggia dotato di servizi igienici, di una rudimentale doccia a gettoni e di una rusticissima veranda con tavolini e sedie in plastica rossa, è per me uno dei posti più belli del mondo, e da anni fa da sfondo ai momenti più felici di ogni mia estate.

La spiaggia su cui affaccia il messicano è un angolo di paradiso, stretto tra una colonia di agavi giganti e l’azzurro intenso che lega insieme cielo e mare. Formata da sassolini così piccoli da sembrare sabbia che diventano però progressivamente più grandi man mano che ci si avvicina al mare, questa spiaggia è troppo grande per essere riempita dalle (poche) persone che solitamente la frequentano e, a parte pochi giorni di grande affluenza, non si avrà mai difficoltà a trovare un angolo tranquillo e sufficientemente distante dagli altri bagnanti. Normalmente in prossimità di questa spiaggia l’acqua è tra le più calme, limpide e calde che io abbia mai visto. Ci troviamo, qui, sulle coste del mare Ionio, e le correnti forti e gelide dello Stretto sono ormai lontane. È un mare placido, tranquillo, pacificato e reso saggio dall’infinità di popoli e di culture che lo hanno solcato nel corso dei millenni. È il mare antico di una spiaggia selvaggia.

In questo contesto, il Messicano è l’unica concessione possibile agli agi e alle comodità. A meno che tu non voglia semplicemente una birra o un ghiacciolo, sarà meglio avvisarlo per tempo che intendi mangiare lì. Lui ti dirà di andare a fare un tuffo e ritornare dopo un po’, anche se stai appunto risalendo dal mare, anche se il bagno lo hai già fatto, anche se hai i capelli ancora gocciolanti e le dita gonfie e spugnose (in dialetto “rrappate”) di chi a mollo c’è stato un po’ troppo. Qualsiasi cosa tu decida di fare, dopo un’attesa indefinita – e indefinitamente lunga – ti verrà servita una frittura di pesce tra le migliori che tu abbia mai mangiato o una caponata (pan biscotto condito con olio, sale, pomodoro, olive, origano e basilico) di una bontà commuovente. E non è solamente l’attesa del cibo: sarà l’intero pasto, dall’assegnazione del tavolo fino al conto (che chiederai più e più volte fin quando non deciderai di alzarti e andare a pagare direttamente alla cassa) ad essere scandito dai ritmi inesorabilmente lenti dell’inedia, ma questo luogo è così bello che ciò diventa addirittura piacevole. Siamo in un mondo altro, parallelo, che non contempla la prestazione, la corsa, l’efficienza. Siamo in un mondo statico, nel regno dell’agave: osservala, adeguati, inizia a somigliarle diventando immobile anche tu.

Cotto dal sole, sfiancata dal mare, sotto l’ombra di quella veranda ti potrai rilassare, assaporando l’inazione.

In effetti, a ripensarci adesso che lo descrivo, in quel posto che tanto adoro non c’è nulla di speciale: delle agavi, una bella costa, un baretto sulla spiaggia, attese lunghe e qualche contrattempo. Una serie di dettagli. Ma che sono, alle volte, estremamente importanti: l’insostituibile sfondo dei momenti più felici di ogni mia estate.

Territorio e città

Il turista inglese e il fascino del sottosviluppo

Il giornalista di The Guardian Tim Parks ha recentemente pubblicato un articolo – un reportage di viaggio in effetti – nel quale racconta la propria esperienza di scoperta della Calabria ionica, seguendo un tragitto che, partendo da Reggio Calabria, lo ha condotto fino a Taranto.

Quello descritto da Tim Parks è un viaggio lento (“slow”), umano, esperienziale, dai  ritmi tranquilli e “mediterranei”. Un viaggio senza pretese e senza aspettative se non quella di potersi abbandonare al piacere dell’imprevisto e della scoperta di un luogo che, se non unico in Europa, è sicuramente uno dei pochi ad avere conservato pressoché intatta la propria autenticità, il proprio carattere, risultato unico di una storia millenaria di vicende incredibili, fondamentali e spesso drammatiche che hanno interessato nel corso dei secoli questo pezzetto di mondo. Per tutti gli spostamenti in loco, Tim Parks ha utilizzato esclusivamente due mezzi di trasporto: il treno regionale della linea ionica a binario unico ed i propri piedi, e il giornalista consiglia a tutti gli interessati, ai potenziali viaggiatori, di muoversi così.

Non mi stancherò mai di promuovere ed incoraggiare questo tipo di turismo, umano, sostenibile, rispettoso della gente e dei luoghi. Una vera e propria rivoluzione culturale rispetto al modello, ben più diffuso purtroppo, del turismo di massa, che tratta le località come beni di consumo e merci da utilizzare a proprio piacimento e, inseguendo lo stereotipo invece che la conoscenza, trasforma ogni sito in un non luogo uguale ad infiniti altri.

Ricordo ancora la tristezza che provai quando, qualche anno fa, visitai per la prima volta la città di Matera. Questo luogo incredibile, denso di storia e di cultura e in cui ogni singola pietra, se la si ascoltasse, avrebbe molto da raccontare, era ormai svalutato, involgarito e preso d’assalto da decine di agenzie e operatori pronti a venderti esperienze mordi e fuggi, tanto artificiali quanto vuote a dispetto dei nomi, che recitavano invece: “Visita la vera casa del contadino! Entra in una vera casa dei sassi! Osserva i veri attrezzi da lavoro degli abitanti di Matera! Scatta una foto con i veri costumi tradizionali!”. Operatori in pettorina gialla, promozioni urlate di continuo, insegne pubblicitarie e cartelli ad ogni angolo del centro storico: una Matera violentata e ridotta a merce è l’immagine che tristemente mi porto dentro a ricordo di quel viaggio.

L’esperienza raccontata e proposta da Tim Parks è, invece, radicalmente diversa e qui da noi – per fortuna – è ancora possibile viverla, perché il turismo di massa ha investito solo marginalmente la Calabria, limitandosi ad interessare poche località particolarmente rinomate. Normalmente e nella maggior parte dei casi, l’esperienza di chi decide di organizzare una vacanza in Calabria sarà quella della scoperta, dell’esplorazione, e non sarà molto dissimile dai famosi viaggi di conoscenza che, ormai quasi due secoli fa, portarono qui numerosi rampolli dell’alta borghesia europea, i quali, meravigliati dal carattere aspro ed insieme esotico delle nostre genti e dei nostri luoghi, ci descrissero, ci dipinsero, ci raccontarono in opere che hanno ancora oggi un inestimabile valore.

Eppure, pur con queste premesse, c’è qualcosa, nel discorso di Tim Parks, che non mi torna perfettamente, o meglio, che non mi soddisfa a pieno. In un passo del proprio reportage, a proposito degli spostamenti in treno, il giornalista così avverte il lettore: “Non preoccuparti troppo delle coincidenze o degli orari. Nessun altro, a parte te, lo farà”. Consiglia, poi, di non lamentarsi mai “di un treno in ritardo, o anche in partenza presto, o da una piattaforma inaspettata”. Prima o poi, quasi magicamente, si vedrà apparire, sulla linea dell’orizzonte assolato e torrido della nostra estate meridiana, “un’unica carrozza a motore diesel”, che “potrebbe essere in ritardo di soli dieci minuti, ma sembra che arrivi da un’altra epoca”.

Ecco, io devo dire, da antropologa ed operatrice del settore, oltre che da calabrese, che questo racconto non mi gratifica granché, né mi inorgoglisce. Piuttosto, queste ed altre affermazioni insinuano in me il dubbio, il sospetto, che Tim Parks sia giunto alle nostre latitudini spinto da un desiderio dell’esotico e del selvaggio che potremmo anche chiamare “estetica del sottosviluppo”, e che qui da noi abbia trovato esattamente quello che cercava.

Abbiamo dunque soddisfatto in pieno la sua voglia di esotismo; questo ci gratifica? Personalmente, credo di no, o almeno solo in parte. Ritengo, ad esempio, che il fatto che un treno possa partire in anticipo o in ritardo, o da una piattaforma inaspettata, beh, se soddisfa forse un viaggiatore, a molti altri sicuramente causerà disagi anche di una certa entità. E non sono affatto sicura che il turista non debba preoccuparsi degli orari perché tanto sarebbe l’unico a farlo. Immagino, invece, quanto sia palpabile la preoccupazione dei pendolari che quotidianamente si spostano per lavoro, dei professori, degli operai, dei ferrovieri che spesso accolgo nella mia struttura ricettiva trovandoli puntualmente stremati da un viaggio che richiede anche cinque o sei ore per spostarsi da una città all’altra all’interno della stessa regione – praticamente, un’odissea.

Un viaggiatore come Tim Parks coglierà certamente il lato pittoresco ed esotico di tutto questo, il fascino retrò e neorealista delle vicende di Calabria. Dopodiché, tornerà al lavoro nella sua organizzatissima metropoli, che gli garantirà servizi efficienti e spostamenti rapidissimi. E magari si lamenterà pure se un giorno la metro dovesse passare con trenta secondi di ritardo, come se certe cose fossero accettabili – perché ovvie e naturali – in Calabria ad esempio, ma altrove no. Ecco, è precisamente questo che mi dispiace, che non mi può star bene e su cui dovremmo, pertanto, intervenire.

Una precisazione è d’obbligo: le mie critiche non sono assolutamente rivolte al giornalista di The Guardian e al suo reportage. Ritengo anzi che il suo viaggio sia stato affascinante , intenso, bellissimo e che il suo lavoro sia stato scritto con passione ed onestà. È proprio per questo che dobbiamo, secondo me, prenderne spunto per rifletterci, parlarne, cercare una via possibile per il cambiamento, immaginare un futuro, per il turismo e non solo, in questa Calabria che è croce e delizia nostra. Trovare un modo per preservare quei luoghi che sono il nostro tesoro più prezioso perché sublimi ed evocativi a tal punto da suscitare emozioni intense e diventare, più che mero spazio fisico, dei “luoghi dell’anima” per chiunque li contempli. Ma, allo stesso modo, dotarli di infrastrutture che li rendano più facilmente raggiungibili. Non è pensabile, ad esempio, che al momento non sia possibile recarsi a Pentedattilo se non con mezzi propri.

Scrive Tim Parks che la persona che seguirà le sue orme dovrà “accettare lo strano mix di ospitalità e indifferenza che caratterizza la gente del posto” e “l’invito generale ad un caldo, alimentato, fatalismo”. Ecco un’altra immagine romantica, poetica, affascinante da morire.. che tuttavia non possiamo accettare, e che non rende onore a molti di noi. È vero, secoli di convivenza con una natura indomabile e sublime ci hanno reso aspri, callosi, resilienti, e questo è un dato. Tuttavia, io che non vado in cerca di avventure esotiche ma cerco di costruire, per me e non solo, un futuro in questa mia terra, se penso al fatalismo e all’indifferenza di molti miei concittadini immagino, piuttosto, le centinaia di costruzioni abusive e non finite che deturpano le nostre coste e le nostre città; le fiumare trasformate in discariche di elettrodomestici e materiale inerte di varia natura; i siti archeologici – visitabili sulla carta – perennemente chiusi, perché chi ha le chiavi non si sa bene chi sia né dove sia e a occuparsi di che cosa, e comunque, anche se si potesse entrare, mancherebbero le condizioni minime di decoro e sicurezza. Immagino le fogne a cielo aperto che intorbidiscono il blu del nostro splendido mare.

Indifferenza e fatalismo: “Lo Stato ci ha abbandonato” – quante volte abbiamo sentito questa espressione? – in Calabria non cambierà mai nulla, e quindi – sottinteso – la dimensione pubblica, di fatto, non esiste, e noi possiamo fare qualsiasi cosa. Ignorare la differenziata. Incendiare i boschi. Legittimare clientele e corruzione. Nascondere e negare la nostra parte di responsabilità.

Se lo Stato ha abbandonato qualcuno, questo abbandono è stato perpetrato, qui come altrove, nei confronti degli ultimi, e soprattutto delle ultime, della società. Nella grande maggioranza dei casi, se abbandono c’è stato, direi piuttosto che è stato reciproco, consensuale.

Da calabrese, conosco bene i pericoli del fatalismo e non intendo accettarli. Insieme a molte altre persone, con il mio lavoro provo quotidianamente a costruire una realtà diversa. Non si tratta di cambiare il carattere di un popolo, di modificare quei tratti del nostro essere che tanto hanno affascinato Tim Parks e molti altri viaggiatori prima e – si spera – dopo di lui. Semplicemente, penso che sia indispensabile una crescita culturale che ci consenta di valorizzare e preservare i nostri tesori, fisici ed immateriali, rendendoli al contempo maggiormente fruibili.

Possiamo ignorare che sotto casa nostra ci sia un importantissimo sito archeologico attualmente sconosciuto e nel quale pascolano le capre, oppure possiamo documentarci, impararne la storia ed imparare a raccontarla in tre o quattro lingue diverse. Lasciandole pure, le capre, se ciò non rovina e non deturpa. Ecco, se io fossi amministratrice, a qualsiasi livello, di questo territorio, mi sentirei toccata nel profondo dal reportage di cui sopra, ed in qualche modo coinvolta, responsabile. Sentirei, forte, l’obbligo di intervenire, affinché in questa terra di Calabria, che è croce e delizia nostra, chi volesse viaggiare come ha fatto Tim Parks possa continuare a farlo, e chi, invece, non ha questa possibilità, abbia l’opportunità di muoversi diversamente . E, cosa non meno importante, affinché i trasporti siano efficienti, affidabili e puntuali per chi in Calabria ci vive e ci lavora.

Perché chi intende viaggiare come Tim Parks deve poterlo fare; che sia, però, una libera scelta.